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4 settimane fa

Strauss e le leggi di Platone

Strauss e le leggi di Platone

il libro

di Leo Strauss sulle Leggi di Platone non rappresenta solo

il coronamento della sua lunga serie di studi sui classici greci

che, presenti lungo tutto l’arco della sua

carriera filosofica, vengono sviluppati in particolare a partire

dai primi anni Sessanta. Questo libro presenta infatti, dal punto di vista teorico, il nucleo centrale dell’intero lavoro filosofico-politico di Strauss, cioè la

tensione dialettica, irrisolta e irrisolvibile, tra filosofia e politica;

mentre, dal punto di vista biografico, porta a compimento

il percorso degli studi straussiani sul problema teologico politico,

la cui svolta era stata resa possibile dalla lettura – alla

Staatsbibliothek di Berlino nel 1929 – del passo di Avicenna

sulle Leggi che Strauss decide di apporre in exergo proprio al

presente volume. Insieme a Maimonide, Platone è l’autore più

presente nella bibliografia straussiana. L’accostamento tra gli

autori della Repubblica e della Guida dei perplessi non è casuale.

Il Platone di Strauss non è infatti il filosofo la cui lezione è

stata tramandata dalla tradizione neoplatonica, né il «teorico

delle idee» il cui insegnamento – secondo i filosofi della crisi,

da Nietzsche a Heidegger – sarebbe alla radice del nichilismo moderno. Al contrario, il Platone di Strauss è il filosofo della

dialettica, della retorica socratica, della scrittura reticente e,

soprattutto, del «problema teologico-politico», le cui opere

vengono lette, da un lato, attraverso la linea genealogica che

da Maimonide conduce ad Avicenna, Averroè ed al-Fârâbî;

dall’altro lato, come modelli di riferimento per una critica radicale

del moderno inaugurato da Machiavelli, Hobbes e Spinoza.

Platone è dunque il privilegiato punto di riferimento diStrauss per l’analisi di due modelli opposti di razionalismo, le

cui opzioni sul problema teologico-politico sono del tutto divergenti:

da un lato, quello ebraico ed islamico del Medioevo,

fondato su una forma zetetica (socratica) di scetticismo filosofico;

dall’altro lato, quello moderno, fondato su una forma radicale

(cartesiana) di scetticismo «scientifico».

La figura e l’opera di Platone svolgono in Strauss un ruolo

centrale anche in numerose altre direzioni teoriche. Infatti –

dalla compiuta elaborazione della teoria della scrittura reticente

alla definizione della dialettica tra Atene e Gerusalemme

(senza contare, inoltre, la presenza del filosofo della Repubblica

e delle Leggi nelle letture straussiane di Rousseau, Mendelssohn,

Nietzsche, Hermann Cohen, Max Weber e Carl Schmitt)

– Platone rappresenta il modello di una ricerca filosofica

dialettica, allo stesso tempo radicale (sul piano della «demitizzazione

» privata delle opinioni) e moderata (sul piano della

prudenza pubblica intorno all’agire politico), in grado di difendere

la natura specifica della filosofia, cioè il suo essere «saggezza

straniera» anche in patria o, meglio, il suo carattere critico

rispetto ad ogni autorità costituita, ad ogni costume normativo,

ad ogni mito politico e ad ogni tradizione socio-religiosa.

Pur all’interno di un quadro interpretativo abbastanza

omogeneo, è tuttavia evidente che non possono non esistere

differenze tematiche e mutamenti di orizzonte tra le diverse

letture di Platone condotte da Strauss nell’arco dell’intera sua

carriera, dagli anni Trenta agli anni Settanta. Senza tradire la

scansione cronologica, queste differenze possono essere suddivise

– in via semplificativa – in quattro grandi aree tematiche:

la fondazione giuridica della filosofia e la fondazione filosofica della Legge (, la teoria del diritto naturale, il rapporto – fondato

sulla distinzione tra filosofo, cittadino e sofista – tra radicalismo

filosofico e conservatorismo politico (che Strauss discute

in particolare attraverso l’interpretazione della Repubblica di

Platone in The City and Man, 1964), e la legittimità filosofica della costituzione

politica (discussa soprattutto in The Argument and the

Action of Plato’s «Laws», 1975: cfr. § 5).Accanto alla questione del contenuto teorico, che si inserisce

all’interno di una parabola originale e coerente degli studi

straussiani su Platone, il volume di Strauss sulle Leggi si caratterizza

soprattutto per una spiccata originalità formale della

struttura argomentativa e della scrittura. Utilizzando in modo

esemplare il modello proposto da al-Fârâbî con il suo Compendium

Legum Platonis, Strauss «riscrive» le Leggi di Platone, utilizzando

una modalità di scrittura del tutto aliena rispetto alla

forma tradizionale del saggio o della monografia (un fatto che

è reso evidente, per esempio, anche dalla totale assenza di note

e dalla quasi totale assenza di riferimenti a testi di letteratura

secondaria). In questo volume Strauss ripercorre il testo platonico

quasi pedantemente, riproponendo passo per passo la

struttura e l’argomentazione del dialogo, e inserendo, in modo

non organico, alcune sue riflessioni in qualità di «lettore»

che dialoga con il testo, interrogandolo nelle sue contraddizioni

e nelle sue oscurità. La chiave per la comprensione del lavoro

di Strauss può dunque essere l’uso, e il non uso, che Strauss

fa di Platone. Strauss, tuttavia, si serve di Platone in diversi

modi: fare riferimento a un passo di Platone è cosa diversa dal

citarlo, e fare riferimento a un passo di Platone senza citarlo

esplicitamente è cosa diversa dal fare riferimento a Platone in

modo generico. Il lettore del libro di Strauss è messo di fronte

a un duplice compito: innanzitutto, al compito di leggere il

testo di Strauss preso in sé, successivamente al compito di rileggere

il testo di Strauss avendo accanto a sé le Leggi di Platone,

così da verificare le variazioni che esistono tra l’«originale»e la «copia», cercando di comprendere le ragioni di queste variazioni.

Nel proporre una scrittura fondata sui modelli della

«ripetizione» e dell’«imitazione», Strauss insiste, in modo non

esplicito, sul tema della reticenza dei testi filosofici, allo scopo

però di mettere in evidenza non tanto il caso della persecuzione

politica o religiosa nei confronti dei filosofi, quanto la questione

dell’educazione, cioè della pedagogia filosofica necessaria

in qualunque forma di regime politico.

Le Leggi – come tutte le opere premoderne – presentano

due diversi livelli di lettura «razionale», uno pubblico, rivolto

alla comunità, e uno segreto, destinato ai sapienti e ai loro discepoli,

ai quali tuttavia non è permesso discriminare in pubblico

tra verità teoretiche e opinioni popolari. Strauss sviluppa

una raffinata «ripetizione» letteraria del dialogo platonico,

allo scopo di portare luce sul piano nascosto delle Leggi, il cui

fine è quello di rivelare la verità nel momento stesso in cui la

dissimula: «ripetizione» può significare una ripetizione che riproduce

il testo secondo le sue caratteristiche esterne, oppure

una ripetizione che lo riproduce in base ai suoi caratteri più

propriamente intenzionali. Del resto, l’uso di sottili variazioni

(aggiunte e omissioni dovute a una selezione razionalmente

consapevole) dovute al parziale silenzio di un autore su un

dato argomento è un espediente caratteristico del metodo della

ripetizione, il cui scopo, accanto a quello di divulgare pubblicamente

l’opinione convenzionale «ripetendola» più volte,

consiste nel comunicare tra le righe, cioè attraverso aggiunte

od omissioni apparentemente non essenziali, gli argomenti

cardinali della verità teoretica: lo scopo della ripetizione di un

argomento convenzionale è quello di nascondere la divulgazione

di un argomento non convenzionale. Elaborando un

piano dell’opera che non è del tutto oscuro, ma nemmeno del

tutto chiaro, il Platone di Strauss si muove in uno spazio appositamente

creato, a metà tra insegnamento orale e insegnamento

scritto. Il discorso filosofico richiede, nel passaggio tra le varie generazioni

dei filosofi e nel rapporto tra i filosofi e i giovani solo potenzialmente filosofi, la messa a punto di un procedimento

di graduale introduzione al discorso filosofico stesso. Nell’interpretazione

straussiana, la graduale, ma necessaria, introduzione

alla filosofia viene definita, a partire dall’esempio dei

classici greci (con particolare riguardo a Platone e Senofonte,

cioè a due esponenti della retorica socratica), come educazione

a leggere e a scrivere di genere particolare: la filosofia è educazione

liberale nel senso più elevato, è educazione alla perfezione

dell’uomo, proprio perché la filosofia, nel suo essere ricerca

della saggezza, è contemporaneamente virtù e felicità.

L’educazione liberale consiste nello studio attento dei libri dei

grandi filosofi: questo significa acquistare profonda consapevolezza

del fatto che i grandi pensatori non dicono le stesse cose

sugli argomenti più importanti. Anche senza essere filosofi,

è possibile amare la filosofia, cioè ascoltare il dialogo tra i grandi

filosofi attraverso lo studio dei loro libri. Tuttavia, questo

dialogo non ha luogo senza studio: infatti, tutti i grandi filosofi

si esprimono attraverso monologhi, anche quando scrivono

dialoghi. Il compito dello studioso consiste nel tentativo di

trasformare questi monologhi in dialoghi: lo studioso vive in

un «cerchio incantato», protetto dall’opera dei filosofi che si

sono confrontati con i problemi senza rimanere all’ombra di

nessuna autorità. In questo senso, i grandi libri rivelano il loro

pieno significato, quale è stato inteso dai loro autori, solo

se si medita su di essi «giorno e notte».La filosofia politica classica giunge alla legittimazione dell’assoluta

superiorità della vita filosofica sulla vita politica, la cui

virtù è in sé e per sé incompleta. Del resto, l’educazione liberale

del filosofo non coincide, se non in minima parte, con l’educazione

liberale del cittadino (per quanto perfetto), perché

il filosofo e il cittadino perseguono fini diversi e, in questo senso,

possiedono due nature diverse. Il saggio non desidera governare:

infatti, strettamente parlando, il filosofo non fa parte

della città, perché gli unici maestri ad essere una parte costitutiva

della società politica sono i sacerdoti. Accanto alla ricerca

della verità, l’interesse del filosofo è rivolto soprattutto all’educazione

dei giovani potenziali filosofi: non a caso, l’insegnamento

socratico sulla vita filosofica è un insegnamento sull’amicizia.

Malgrado l’attività pedagogica del filosofo esponga

quest’ultimo ai pericoli della persecuzione, soprattutto perché

questa stessa attività pedagogica viene considerata pericolosa

per gli interessi della città, il filosofo non può rinunciare a partecipare

alla vita pubblica: la difesa della filosofia passa per il

tentativo di convertire alla filosofia alcuni giovani solo potenzialmente

filosofi, e questi possono essere incontrati solo nella città, cioè in una associazione già politica, non in uno stato di

natura. Naturalmente questo tentativo di conversione alla vita

filosofica sarà considerato dalla città un tentativo di «corruzione

dei giovani», e in questo modo ha origine la persecuzione.

In ogni caso, l’esistenza della persecuzione non impedisce il lavoro

del filosofo, perché la filosofia e l’educazione filosofica sono

possibili sotto tutte le forme di governo: l’azione politica del

filosofo deve mirare a convincere la città che egli non è un ateo,

che egli rispetta e onora gli dèi onorati dalla città, che egli non

è politicamente un sovversivo, che egli è in definitiva un buon

cittadino. L’azione politica del filosofo è nascondimento e dissimulazione:

l’educazione filosofica è l’unica risposta alla questione

politica posta dal carattere privato della filosofia.

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